Timbuktu

Sala 1 Interverrà il comitato "Mamme no inceneritore" con un breve video

Lunedì, 04 Aprile 2016

Non lontano da Timbuktu, ora governata dai fondamentalisti islamici, Kidane vive pacificamente tra le dune con la moglie Satima, la figlia Toya e il pastore 12enne Issan. In città, la gente soffre impotente per il regime di terrore imposto dai jihadisti, determinati a controllare la loro fede. A Kidane e alla sua famiglia tutto questo finora è stato risparmiato, ma...

 

Scheda

Regia: Abderrahmane Sissako
Paese: Francia, Mauritania
Anno: 2014
Durata: 97 min
Interpreti: Ibrahim Ahmed, Abel Jafri, Toulou Kiki, Layla Walet Mohamed, Mehdi A.G. Mohamed,Adel Mahmoud Cherif

Trama

Timbuktu, un tempo città di tolleranza e benevolenza, è ora nelle mani di un gruppo di estremisti islamici che ne ha preso il comando governando con leggi che proibiscono la musica, il calcio, il fumo e impongono un rigido codice di abbigliamento per le donne e terribili abusi di potere. Kidane, per godersi la vita tranquillamente con la sua famiglia lontano da tutto questo, vive in una tenda sulle rive del fiume Niger e lavora come pastore. Quando però il pescatore pazzo che vive nelle vicinanze, spara al suo gregge, è costretto a cercar di proteggere lavoro, vita e famiglia, uccidendo accidentalmente il rivale e facendo correre veloce il suo inevitabile destino. 

Critica

Sissako, uno dei più celebri autori del continente nero, esplora ancora una volta dopo Bamako, le tradizioni e la cultura del Mali e della città di Timbuktu, ricche e piene di umanità, calpestate dai fanatici jihadisti «che portano le armi nelle moschee. Uomini crudeli, violenti, schiavi della tecnologia e dei beni di consumo come cellulari, automobili, videocamere e armi». La magia di Timbuktu si trasforma in un luogo oscuro, abitato solamente dalla paura, dove le pene per chi infrange le regole sono le percosse, le frustate violente, la lapidazione dopo il seppellimento nel deserto, il massacro con armi da fuoco. Non è un film anti-islamico il suo, piuttosto un grido di allarme lanciato a un Occidente spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo e che nasca dall'interno delle varie realtà nazionali, quando nulla di tutto ciò risponde a verità: «siamo di fronte a un'oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni» 

Premi e Festival

Nomination come Miglior film straniero al Premio Oscar 2015.
Miglior film francese, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior colonna sonora, Miglior montaggio e Miglior suono ai Cesar 2015 

Rubrica

Sissako è scoppiato in lacrime durante la conferenza stampa dedicata al suo film, dicendo che «è sempre più difficile, perchè se non stiamo attenti e non ci preoccupiamo degli altri, rischiamo di diventare indifferenti agli orrori che ci circondano».

Premio della giuria ecumenica della 67' edizione del festival di Cannes, così motivato: “Questo film racconta la storia di vita, di resistenza e di dignità di uomini e donne di Timbuktu, che cercano di vivere secondo la loro cultura e tradizioni connettendosi allo stesso tempo ai mezzi di comunicazione moderna. Il film è una denuncia forte ma sottile di un'interpretazione estremista della religione. Si riconosce al film una grande bellezza formale, ironia e compostezza, e nel criticare l'intolleranza, pone molta attenzione all'umanità di ogni persona”.

Dalla conferenza stampa col regista apparsa su www.cineblog.it

Ancora una volta una storia molto forte, di grande impatto emotivo…
Credo che un regista abbia anche il dovere di raccontare le realtà più difficili, magari quelle che non trovano sufficiente spazio sui mezzi di comunicazione. Il 29 Luglio del 2012 ad Aguelok, una piccola città nel nord del Mali, un crimine inspiegabile ebbe luogo. Un crimine sul quale i mezzi di comunicazione di tutto il mondo chiusero gli occhi. Una coppia di due trentenni, genitori di due figli, sono morti lapidati. La loro unica colpa era di non essere sposati. Il video del loro assassinio, che è stato pubblicato sul web, è mostruoso. La donna muore colpita dalla prima pietra, mentre l’uomo butta fuori un urlo disperato. Poi silenzio. Aguelok non è Damasco o Tehran. Non è trapelato niente di questa storia. Tutto quello che racconto è orribile lo so, non voglio usare un fatto così atroce per promuovere il film. Ma non posso dire che non sapevo e testimonio quello che è accaduto, nella speranza che nessun bambino debba mai più imparare che i propri genitori sono stati uccisi perché si amavano. Ho fatto di tutto per non appropriarmi di questa storia e di non elevarmi a profondo conoscitore di questi territori. Credo che la terra non appartenga a nessuno, ma sia di tutti, come questa storia, in un certo senso. Anche la sofferenza è presente in tutto il mondo, quindi questa storia particolare ed estrema, non andrebbe circoscritta nei territori che il film ha voluto raccontare.

Sylvie Pialat, la produttrice del film, ha affermato che inizialmente si pensava di girare un documentario…
Timbuktu è ancora occupata e non è stato possibile girare in Mali per ragioni di sicurezza. Quando la Francia è intervenuta, abbiamo sentito la necessità di raccontare questa storia in forma di fiction, scegliendo con grave ritardo un luogo più sicuro, la Mauritania, dove girare.

Nel film viene evocata anche una certa parte di umanità nel cuore jihadista…
C’è una grande complessità nell’animo di un jihadista. Ci trovi il bene e il male. Sono tutte persone che hanno sofferto e in alcuni di loro il dubbio può attanagliarli.

E la sua paura di un cinema estetizzante?
Il cinema è un linguaggio che parla con la sua personale intonazione. Per me è importante trovare una certa armonia tra le parti, per meglio far passare i propri intenti e poter essere riconosciuto. È sempre più facile riprendere l’orrore. Nel mio lavoro ho sempre cercato di evitare la strada più semplice, stando attento a non spettacolarizzare appunto l’orrore che ci circonda.

Dicci della colonna sonora...
Timbuktu parla di spezzare le catene, rompere i divieti. I musicisti continuano a far musica anche se è strettamente proibita, i bambini giocano a pallone nonostante i divieti... Ho cercato, con la musica, di esprimere questo: la musica cerca di superare le convenzioni, mescolando strumenti della tradizione con le armonia e le tessiture dell’orchestra [...] È il messaggio universale del film. E la musica cerca di esprimerlo: gli strumenti etnici, fusi con i colori orchestrali, rafforzano e arricchiscono l’emozione.” - Amine Bouhafa Il compositore Amine Bouhafa ha realizzato una ricca tavolozza di colori fondendo il suono di voci e strumenti africani e extraoccidentali (kora, duduk, n’goni, flauto bansuri, oud, percussioni) ed europei (piano e clarinetto, affidati allo stesso compositore) con lo sfondo affidato all’Orchestra Filarmonica della Città di Praga. Amine Bouhafa è compositore, musicista e direttore di orchestra, ha all’attivo numerose colonne sonore per film e serie televisive (come il fortunatissimo TV show egiziano ‘The First Lady’ con Ghada Abd Errazik, campione d’ascolti nei paesi di lingua araba). La sua notorietà è legata specialmente alle sue collaborazioni con due registi, l’egiziano Adel Adib e il tunisino Mohammed Zran.

La storia della jihad che racconta è tragica, una realtà che non si dimentica e comune a molti luoghi. Come ha intuito la potenzialità di questa storia, molto specifica ma allo stesso tempo riconducibile a molteplici situazioni in altre parti del mondo?
Due cose mi hanno colpito in particolare, l’assurdità e la violenza degli atti che i jihadisti hanno commesso quando sono entrati a Timbuktu e soprattutto la lapidazione di quella coppia che è avvenuta proprio a Timbuktu. Ho voluto raccontare subito quella storia per mostrare che in quel luogo e in quel momento quello che stava capitando era assolutamente paradossale. Tutte le cose anomale, non normali vengono spesso taciute, non menzionate. Restiamo in silenzio quando le vittime sembrano così lontane e diverse da noi.

Timbuktu è una città simbolica e la prova che gli è stata inflitta dall’occupazione jihadista è anch’essa simbolica?
Qualche anno fa (nel 2006) ho girato una sequenza di un film western Bamako, con Denny Glover, questa sequenza è stata girata a Timbuktu che era, in quel periodo, un luogo straordinario di tolleranza e scambi. Giravamo proprio davanti la moschea e nessuno si è sentito minacciato o offeso da questo, di tanto in tanto fermavamo le riprese per lasciare passare le persone che andavano a pregare. È questo il vero Islam ed è per questo che l’occupazione di Timbuktu, da parte di persone provenienti da altri luoghi è simbolica. Timbuktu è un luogo mitologico, tutti ci sentiamo feriti dalla sua occupazione. L’occupazione della città, nel 2012, è durata un anno. Un anno durante il quale tutta la popolazione è stata presa in ostaggio. Un anno durante il quale i media si sono soprattutto focalizzati sugli ostaggi occidentali rapiti in questa parte del mondo.

Lei viene dalla Mauritania ma il film è girato in Mali. L’occupazione jihadista è stata breve. È ritornato a Timbuktu per girare quando si è conclusa l’occupazione?
Quando Timbuktu è stata liberata dalle truppe francesi, sono andato sul posto. Avevo intenzione di rivedere la sceneggiatura, incontrando la gente del posto. Mi avevano consigliato, per esempio, di parlare con una venditrice di pesce che aveva accettato di indossare il velo contro la sua volontà ma aveva osato sfidare gli jihadisti. Loro erano rimasti cosi sorpresi dalla sua reazione che l’avevano lasciata tranquilla. È il genere di personaggio che non si può immaginare scrivendo la sceneggiatura a Parigi. Ho visto anche quelle ragazze stuprate che chiamano vergognosamente “sposate con la forza”. Esattamente come le studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Una di loro, di 19 anni, ha avuto il coraggio di raccontarmi che ogni sera, vedeva arrivare quattro uomini, dei quali non vedeva il viso. Ho raccolto tutte queste testimonianze, con attenzione, cercando di restituirle in modo genuino, pudico, senza amplificarle. A che serve aggiungere qualcosa, la realtà è già di per se cosi terribile. La gente che incontravo parlava poco, voleva lasciarsi tutto alle spalle e passare oltre. Avevo intenzione di girare lì, sul posto. Purtroppo c’è stato un attentato suicida davanti alla guarnigione militare. Tre uomini in fuoristrada si sono fatti esplodere dopo essere stati a mangiare tutti insieme una grigliata. Hanno ammazzato due uomini che passavano di li con il carretto. Era estremamente rischioso portare una troupe a Timbuktu, e così ho deciso di spostare le riprese di alcune scene in Mauritania, cercando città simili a Timbuktu, come Oualata. La difficoltà era di portare in quel luogo le persone di etnie che vivevano a Timbuktu e non in Mauritania: i Songhai, i Tuareg, i Bambara, i Peuls...Abbiamo girato per sei settimane, nella tensione. Il luogo delle riprese era cmq in una zona pericolosa. C’erano francesi nella troupe. Eravamo protetti dall’esercito della Mauritania, ma anche se ci dicevano ogni giorno che nessuno sarebbe stato rapito e che la situazione era sotto controllo, non eravamo al riparo da qualche attentato suicida.

Mostra gli jihadisti come esseri ridicoli, fannulloni, falliti, imbecilli, ipocriti, che fumano di nascosto e hanno pulsioni...
Mostro anche che possono essere cortesi: restituiscono gli occhiali e i medicinali all’ostaggio europeo e gli offrono il tè. Un secondo dopo, magari lo decapiteranno... ma racconto anche come possono lapidare e ammazzare una coppia e flagellare una donna perché ha cantato. Ma in ogni gruppo, e quindi anche nel loro, ci sono per forza tutti i tipi di individuo, il cattivo, l’intellettuale o anche un rapper. Tengo molto al personaggio del rapper, un giovane a cui hanno fatto il lavaggio del cervello, e che pensa che quando faceva musica, era nel peccato. Abbiamo saputo poi che l’uomo che ha tagliato la gola all’ostaggio americano James Foley era con ogni probabilità un ex rapper londinese.

Lei riconosce un elemento di umanità ai jihadisti?
Ogni essere umano è complesso, ha il lato buono e quello cattivo. Un jihadista è come noi, ma la sua vita è cambiata tragicamente. Una persona che usa violenza sugli altri ha anche lui dei dubbi. Per questo io penso che ci sia anche in lui un lato umano.

Filma una scena splendida, una partita di calcio senza pallone, l’immaginazione è più forte del divieto?
Si, l’immaginazione è l’ultima arma che rimane a quella gente che ha appena perso ogni riferimento. È tutto ciò che gli rimane, ciò che li mantiene in vita, perché nessuno può ucciderla, è l’ultima speranza. E quando ho immaginato questa scena, l’ho visualizzata esattamente come nel film, poi ha preso una dimensione, una forza che la rende fondamentale all’interno del film, anche grazie al lavoro dell’autore delle musiche.

La famiglia berbera che ci mostra è molto simpatica e affiatata e il loro modo di vivere è molto piacevole. Ha cercato di farci condividere più profondamente il dramma di queste persone e la loro vita insieme?
Per era importante raccontare un dramma umano e la vicenda di un uomo che sta per morire e lasciare la figlia orfana

Come ha selezionato gli attori?
La maggior parte non sono attori professionisti, non è stato semplice. Per esempio, il giorno in cui ho girato la scena del giudizio di Kidane, il mio assistente mi presentò un uomo per recitare la parte del giudice, e mi accorsi subito che non andava bene. Dissi allora ad un tecnico della troupe che sarebbe stato lui a recitare la parte del giudice; non ebbe nemmeno il tempo di riflettere sulla parte, indossò subito l’abito... E si rivelò di una forza incredibile! Per Kidane, il tuareg, era impossibile trovare un attore di teatro... mi ricordo di aver visto un tipo su una fotografia, un musicista che viveva a Madrid, con cui ho avuto solo un colloquio telefonico; mi sono fidato ciecamente di lui, non gli ho fatto fare neanche un provino. Ed è fantastico! È questa la fragilità del cinema ed il suo miracolo. Alla fine giriamo le scene della morte del pescatore. È a 20 chilometri da Kifa, l’unica distesa d’acqua non prosciugata che abbiamo trovato. Il pescatore deve parlare Songhai o Bozo, una lingua con cui può comunicare con l’allevatore tuareg. A Timbuktu, la gente parla almeno tre lingue! Per questo faccio vedere che gli jihadisti si muovono con degli interpreti. Il mio assistente mi fa vedere una foto del pescatore che è stato selezionato; non mi va bene per niente. Il personaggio deve morire, la sua presenza è molto breve, deve comunicare qualcosa, serve che abbia carisma. E non è il caso dell’uomo che mi propongono. Allora mi preparo ad improvvisare, a immaginare di girare la morte del pescatore senza il pescatore. La scenografia è pronta. E lì, tra quelli che stanno sulle piroghe, vedo un uomo. Viene da Timbuktu, mi racconta che è scappato dagli jihadisti, che è rifugiato lì da un anno; parla songhai, bambara, tamachek (la lingua tuareg); la pesca è la sua passione, ha capito tutto del mio discorso, è pronto a fare tutto ciò che gli chiedo! Nuovo miracolo: è perfetto! Al cinema, il regista è solo un traghettatore. Il suo lavoro è solitario, ma beneficia di un inconscio collettivo. È questa magia che mi appassiona.

Quando ha deciso di diventare regista?
Ho deciso molto presto che avrei intrapreso questa professione. Avevo 14 anni e non ero un cinefilo e neanche un amante del cinema, avevo visto veramente pochi film. Mia madre ebbe un figlio prima di me, dal precedente matrimonio e il padre di questo bambino fuggì portandolo via con se. Erano in Algeria e per 25 anni lei non riuscì a rivedere suo figlio. I miei fratelli e le mie sorelle crebbero con il pensiero, con l’idea che questo fratello fosse sparito per sempre. Mia madre parlava di lui tutti i giorni. Noi crescemmo e lui non era con noi. Una volta lo incontrò in Senegal mentre era in macchina. Quando tornò a casa, ci raccontò che l’aveva visto e che l’aveva fotografato. Mi raccontò che egli stava studiando cinema e mi parlava di questo tutti i giorni. Ed è questa la ragione per cui ho iniziato a fare film, per mia madre.

Dove ha studiato?
Mi sono trasferito a Mosca quando avevo 19 anni e ho studiato lì. Il mio primo cortometraggio, preparato come saggio finale del corso, si intitolava The game ed è stato selezionato al Festival di Cannes nel 1991. Ha avuto molto successo e fu comprato dalla televisione. Grazie a questo io ho potuto realizzarne un altro October. Con questo cortometraggio sono ritornato al Festival di Cannes nel 1993.

Come è riuscito a finanziare Timbuktu?
Non ho girato film per sette anni, ma era arrivato il momento di girare questo film e ho trovato i fondi abbastanza facilmente.

Che reazioni ha suscitato in Mauritania la nomination all’Oscar?
C’è una grande attesa, è una cosa straordinaria per il popolo della Mauritania ma non solo, è importante per l’Africa, per tutto il continente. Un fatto così coinvolge tutti i paesi dell’Africa dal Senegal al Marocco, perché l’Africa viene vista in modo positivo. Tutti sanno che l’Africa è un continente magnifico, anche se ha dei problemi, ma è un luogo poco conosciuto ai molti, nessuno parla seriamente della sua bellezza e complessità. Ogni volta che qualcuno lo illumina di una luce positiva, questo tocca e commuove le persone.

 

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